Asthanga: gli 8 aspetti, gli 8 mezzi dello Yoga
Le 8 membra dello Yoga, chiamate Asthanga, costituiscono uno strumento di discernimento e di purificazione di corpo e mente in modo da poter verificare e superare le percezioni e comprensioni erronee che secondo l’insegnamento dello Yoga stanno alla base di tutta la sofferenza (Dhukha) degli esseri umani. La sofferenza è elemento centrale, a mio sapere, in tutte le religioni e vie spirituali. Oggi è largamente conosciuta anche in occidente la constatazione del celebre Buddha Sakyamuni che iniziò i suoi insegnamenti con la frase: “La vita è sofferenza”. Con tale affermazione non si intendono solamente le sofferenze grandi che magari non superiamo per tutta la vita. Quando cominciamo ad osservare la nostra vita sotto questo aspetto possiamo scoprire che la grande parte è organizzata intorno alle piccole sofferenze quotidiane come disagi, disturbi, fastidi, fatiche, noie, pesanti responsabilità etc. A iniziare dalla nuova sveglia che ci comperiamo per addolcire il nostro risveglio al mattino perché non abbiamo la libertà di alzarci quando il nostro corpo ce lo segnala naturalmente, alla macchina nuova per la quale abbiamo lavorato sodo e risparmiato tanto tempo in modo da avere un veicolo più comodo per i lungi e malsani viaggi di lavoro che dobbiamo percorrere invece di poter muovere il nostro corpo in modo sano ed equilibrato nella natura ogni giorno, al robot di cucina che ci portiamo a casa perché non abbiamo più il tempo per provare il piacere di impastare a mano e alla fatica di mantenere un lavoro che ci rende stressati e infelici, ci fa ammalare e ci porta via dalla famiglia e da noi stessi e i nostri ritmi naturali perché dobbiamo pagare il mutuo per la casa, e così via. Prima o poi ci accorgiamo di essere rimasti schiavi di queste limitazioni che ci siamo auto-imposti grazie al modo erroneo di vedere le cose a causa dei limiti della nostra mente che vanno a ripercuotersi anche sul nostro corpo: AVIDYA – così si chiama il fitto velo di nebbia che copre la nostra parte saggia, libera, di Luce, in grado di osservare e vedere chiaro e di vedere oltre i limiti della mente. Questo nostro centro si chiama PURUSA: l’osservatore disinvolto e saggio, che molti chiamano anche la nostra parte divina.
Avidya si manifesta in quattro modi:
a) Asmita: l’attaccamento all’io o la parte egoica, l’identificazione con le cose che in realtà sono in costante mutamento mentre viviamo nell’illusione che siano permanenti.
b) Raga: il desiderio di avere o essere qualcosa senza la quale non possiamo essere felici.
c) Dvesa: il rifiuto e l’avversione delle cose che non possiamo gradire.
d) Abhinivesa: le paure, che infine, se guardiamo attentamente, culminano tutte nella paura di morire.
Lo scopo dello Yoga è di ridurre il velo chiamato Avidya per poter entrare in contatto con Purusa e vedere e concepire sempre di più con questa nostra parte saggia e divina. Non è una ricetta per eliminare la sofferenza ma per vedere e gestire diversamente le situazioni grazie al fatto di vivere nella verità.
Un modo per verificare la nostra comprensione e capire se siamo in contatto con Purusa è di ascoltare a fondo dentro di noi se ci sentiamo in pace. Ad esempio può capitare che dobbiamo prendere delle decisioni difficili e valutiamo diverse soluzioni. Quando una decisione è forse anche dolorosa, ma possiamo sentire nel nostro profondo che siamo in pace, allora siamo giunti alla comprensione giusta e siamo in contatto con Purusa. Questa pace è la nostra forza e la nostra bussola che ci aiuta a continuare a camminare nella direzione giusta anche nei momenti difficili e ripidi. Abbiamo quindi conquistato un modo diverso per affrontare la sofferenza anche se la sofferenza non per forza svanisce. Seguendo questo sentiero iniziando dalle piccole sofferenze saremo presto capaci di gestire con sempre maggiore saggezza e disinvoltura anche delle problematiche più grandi rimanendo in contatto con la nostra parte saggia e divina e riconoscendo cosa è d’avvero importante.
Gli Astanga ossia gli 8 aspetti o membra dello Yoga (AST = otto, ANGA = membra) che ci aiutano ad alzare il velo di Avidya sono:
Yama (atteggiamento verso se stessi)
Niyama (atteggiamento verso l’ambiente e gli altri)
Asana (posizioni fisiche)
Pranayama (esercizi di respiro)
Pratyahara (ritiro dei sensi)
Dharana, Dhyana, Samadhi (livelli della meditazione)
Queste 8 membra dello Yoga che costituiscono la vera propria pratica dello Yoga, possono essere paragonati ai rami di un albero: crescono contemporaneamente influendosi reciprocamente in modo favorevole (YS II.29).
1 – Yama:
Gli Yama (YS II.30) osservano gli atteggiamenti verso gli altri e l’interazione con l’ambiente che ci circonda. Yama è costituito da:
– Ahimsà, non-violenza/innocuità e l’amorevole considerazione e rispetto per le persone e per le cose in modo da generare energie piacevoli ed amichevoli (YS II.35)
– Satya, dire e vivere la verità in considerazione di Ahimsà e quindi mai dire la verità in modo di ferire qualcuno, genera l’energia pulita e affidabile della coerenza e della trasparenza che scorre nella nostra comunicazione e nelle nostre azioni (YS II.36)
– Asteya, non rubare e non avvantaggiarci di proprietà altrui, genera un energia di fiducia e libertà di condividere (YS II.37)
– Brahmacarya, moderazione, ricercare la verità suprema essenziale, alle volte intesa anche come astinenza sessuale, oppure un modo di impostare la relazione e la sessualità in modo che seguano “l’invito a instaurare relazioni che aiutino a camminare verso la verità suprema” (Il cuore dello Yoga, p.126,TKV Desikachar). La moderazione al suo livello più elevato (YS II.38). Più siamo disposti a investire nella ricerca della verità, più forza abbiamo per raggiungerla. Se una persona sceglie l’astinenza sessuale ciò non significa che deve rimanere celibe in quanto in India è molto comune dedicarsi interamente alla ricerca spirituale dopo aver finito gli studi e cresciuto i figli.
– Aparigraha: Non sfruttare, non essere avidi e afferrare le occasioni a nostro vantaggio ma prendere solo ciò che abbiamo guadagnato. Più cose possediamo e dobbiamo curare meno tempo abbiamo per conoscere noi stessi e proseguire nella ricerca spirituale. Essere meno materialisti e essenziali in ciò che possediamo ci aiuta ad arrivare alla nostra essenza più (YS II.39).
2 – Nyama:
I Nyama (YS II32) invece definiscono il rapporto con noi stessi e sono composti dalle seguenti regole:
– Sauca, pulizia interna ed esterna, purezza, genuinità. La pulizia esterna si riferisce alla pulizia del corpo, mentre la pulizia interna si rivolge sia alla pulizia interna del corpo come anche alla pulizia della mente (parola e pensiero) con l’aiuto delle Asana e del Pranayama. Impareremo così a capire la differenza tra le cose che necessitano delle cure continue e ciò che invece è puro di per se e che troviamo nel nostro profondo. In altre parole impariamo a distinguere tra ciò che è permanente e ciò che è soggetto ai mutamenti continui, tra ciò che è veramente importante e ciò che cambierà continuamente e col tempo svanirà (YS II.40).
– Samtosa, la modestia di accettare ciò che siamo, ciò che abbiamo e ciò che avviene rispettando ciò che Dio ci ha dato sentendoci appagati. Accettare ciò che è, imparando. Conoscere il vero appagamento che non deriva dalle cose materiali (YS II.42).
– Tapas, definisce tutto ciò che facciamo per mantenere sano e in forma il nostro corpo come ad esempio le Asana, il Pranayama, la cura e l’attenzione di tutto ciò di cui ci nutriamo (alimentazione e altre percezioni) e della respirazione, del giusto riposo, dell’attenzione alla postura, e tutto quello che aiuta ad evitare delle scorie si depositino nel corpo (YS II.43).
– Svàdhyàya, si riferisce all’autoindagine (svà = sé, e adhyàya = indagine) in modo da avvicinarsi a se stessi per conoscersi e scoprire le verità personali. Questo può avvenire attraverso l’ascolto profondo come anche attraverso lo studio dei testi antichi o la recitazione di Mantra. I testi sacri ci forniscono dei punti di riferimento, delle mappe nella nostra autoindagine (YS II.44).
– Isvarapranidhànà, devozione, deporre tutte le nostre azioni ai piedi di Dio. Per fare questo è necessaria l’umiltà per accettare il fatto che le nostre azioni possono essere sbagliate senza che ne siamo consapevoli, visto che spesso nascono da Avidya (il velo che oscura la saggezza innata=Purusa), e la modestia di accontentarci di sapere che abbiamo fatto semplicemente del nostro meglio e che il resto lo mettiamo nelle mani del potere divino. “Possiamo definire l’Isvarapranidhànà come l’offerta a Dio dei frutti delle nostre azioni come preghiera quotidiana” (Il cuore dello Yoga, TKV Desikachar, p.129) (YS II45).
3 – Asana:
Si riferisce alle posizioni da eseguire col corpo con lo scopo di reintegrare tutte le parti del corpo tra di loro e con la mente allungando il corpo, sciogliendo i blocchi fisici ed energetici e rafforzando tutta la struttura del corpo.
4 – Pranayama:
Abbinando gli esercizi del corpo al ritmo del nostro respiro arriviamo al Pranayama, l’addestramento del respiro, per unire corpo e mente, e influire in modo positivo sulla mente aumentando la concentrazione e la consapevolezza per migliorare così lo stato psico-fisico della persona.
5 – Pratyahara:
Raccoglimento, ritenzione dei sensi ordinari. Generalmente parlando si può dire che l’essere umano è dominato dei suoi sensi: la vista, l’olfatto, il gusto, il tocco e l’udito. Nello stato di Pratyahara interrompiamo questo dominio concentrandoci così tanto sull’oggetto della meditazione che non possiamo più essere distratti. Nelle persone che meditano regolarmente per molto tempo i sensi si ritirano e si raffinano in modo permanente e possono così essere messi al servizio della mente invece di dominarla. Inoltre, grazie al fatto che le attività mentali nel praticante diminuiscono avviene una sensibilizzazione dei sensi che diventano più affilati e diventano così aiutanti anziché ostacoli alla pratica e alla consapevolezza: “Il mondo diventa più vivo quando siamo più attenti. Il mondo non è cambiato ma la nostra consapevolezza. Degli studi hanno dimostrato che persone che meditano regolarmente da molto tempo percepiscono letteralmente una fetta più grande della realtà. Vedono di più, sentono di più, gustano di più, udiscono di più, perché pensano meno” (The power and the pain – Stages of spiritual practice, Andrew Holecek, p.26).
6 – Dharana:
Così si chiama la prima fase della meditazione nella quale il praticante intraprende uno sforzo per concentrarsi sull’oggetto della meditazione così ‘rilegando i fili della mente’ e concentrando le energie.
7 – Dhyana:
È la seconda fase della meditazione nella quale entriamo in contatto con l’oggetto senza più lasciarci distrarre.
8 – Samadhi:
Siamo arrivati allo stato meditativo nel quale ci fondiamo totalmente con l’oggetto, i limiti dell’individuo sono sfumati e non c’è più separazione tra l’io e l’oggetto di meditazione.